PIO SONGINI

1) Quando è stato deportato?

Sono stato deportato il 9 settembre 1943.

2) In quale campo di prigionia si trovava?

La mia situazione è stata un po' particolare, sono stato mandato in diversi campi di lavoro (arbeit-kommando), in Polonia, in Cecoslovacchia e in Austria.

3) Per quale motivo è stato imprigionato?

Sono stato imprigionato perchè , in Italia, a causa del continuo aggravarsi della situazione militare del Paese, il 25 luglio 1943, il giorno prima della mia partenza, a Roma, era finalmente caduto il governo di Mussolini, e il nuovo, costituito da Pietro Badoglio, tentò di far cessare subito la lunga guerra, che aveva causato soltanto lutti, distruzioni, sofferenze e che stavo portando la Nazione alla rovina. Infatti l' 8 settembre 1943, la radio comunicò che l'Italia aveva firmato l'armistizio con gli Stati Uniti e l'Inghilterra. La notizia venne accolta con grande sollievo, perchè con esso si sarebbe posto finalmente termine alla lunga guerra, ma ci stavamo illudendo tutti, infatti la firma dell'armistizio provocò l'immediata reazione della Germania di Hitler. Il Dittatore tedesco, che intendeva continuare a tutti i costi la guerra e non approvando l'armistizio italiano, ordinò alle sue armate, presenti nella penisola, di punire l'Italia, di occuparla militarmente, di disarmare e imprigionare tutti i suoi soldati, trattandola come una nazione nemica.

4) Può raccontare qualche episodio riguardante la sua vita da prigioniero?

Dopo essermi diplomato come geometra presso l' Istituto Tecnico De Simoni di Sondrio, l'8 gennaio 1943, sono stato chiamato alle armi e ho dovuto recarmi presso l'aeroporto di Taliedo (Milano). Ho salutato tutti e sono partito. Da Taliedo sono poi ripartito insieme ad altri soldati nella notte del 29 luglio per Parma, sede di una scuola per ufficiali del Genio Aeronautico alla quale eravamo stati assegnati. Il comando dell'aeroporto, rimasto senza ordini, venne improvvisamente invaso da reparti delle SS tedesche, che ci disarmarono e ci imprigionarono. Ci catturarono in un cortile e nessuno ebbe la possibilità di rientrare in caserma per prendere un minimo di equipaggiamento, i tedeschi immediatamente ci incolonnarono e ci fecero uscire dall'aeroporto. Ci portarono nella città di Parma dove rimanemmo per 3 giorni, dormendo sulla nuda terra, come coperta avevamo il cielo stellato; da quel giorno cominciammo a soffrire la fame. Il 12 settembre siamo stati trasferiti al campo di concentramento di Mantova su di alcuni mezzi militari. Durante il viaggio, nell'attraversare le strettoie stradali, gli automezzi erano costretti a rallentare e, proprio in quei momenti gettavamo alla folla, che si era riversata sulle strade, dei biglietti dove avevamo scritto le nostre generalità e indirizzi pregando chi li avesse trovati di scrivere ai nostri cari dicendo loro che eravamo stati catturati dai tedeschi, ma di essere, per intanto, sani e salvi. A Mantova sono venuto in possesso di un lenzuolo che ho tagliato in 3 parti: una l'ho usata come coperta, una come asciugamano e l'ultima come sacca dove ho riposto le altre due parti. Abbiamo lasciato Mantova il 17 settembre, per essere trasportati su dei vagoni bestiame, verso il Lager di Hammerstein in Polonia. Il viaggio durò 6 giorni e 7 notti, fu interminabile, il convoglio, a volte, rimaneva a lungo fermo nelle stazioni. Verso le 2 di notte, il convoglio arrivò a destinazione, ci fecero scendere e ci accantonarono in uno spiazzo all'interno del campo recintato da un doppio reticolato di filo spinato, dove siamo rimasti in attesa della perquisizione fino alla fine della mattinata, infreddoliti e bagnati fino alle ossa. Le baracche vicine erano piene di prigionieri tutti italiani e tra loro notai subito degli alpini. In questo lager ci rimasi solo una settimana, era solo un centro di immatricolazione e di smistamento verso altri lager. Ciascuno di noi veniva fotografato con una lavagnetta tenuta all'altezza del petto, sulla quale erano riportati il numero di matricola, il mio era 47749 Stalag II B. La destinazione definitiva fu il campo di lavoro di Barth-Holz anch'esso in Polonia, dove eravamo destinati a lavorare in una grande fabbrica di materiale bellico, posta a circa 3 km dal lager e completamente mimetizzata, in mezzo ad una foresta. Le squadre che vi lavoravano erano 2, una faceva il turno diurno e l'altra quello notturno e, settimanalmente venivano invertiti i turni. La durata era di 12 ore consecutive, con un intervallo di 30 minuti a mezzogiorno e 30 minuti a mezzanotte, durante i quali si consumava la zuppa di rape e cavoli. Quando il turno di lavoro era quello diurno, la sveglia era alle 3.45 e dopo 20 minuti dovevamo essere pronti per partire, il lavoro vero e proprio iniziava alle 6.00 e durava fino alle 18.00, orario in cui iniziava l'altro turno. Il 20 luglio 1944, a Berlino ci fu l'attentato contro Hitler. Nel corso del pomeriggio, mentre riposavo nel lager, ho sentito un soldato tedesco urlare tutto eccitato "Hitler caputt!". "Hitler caputt!". La bella notizia fu però seguita da una cocente delusione, il dittatore era uscito illeso dall'attentato. Verso la fine del mese di settembre, sono stato destinato ad un altro campo di lavoro, uno zuccherificio, sempre in Polonia, dove dovevo caricare su un barcone fermo in un canale, sacchi di zucchero da un quintale ciascuno. Il giorno dopo mi destinarono ad un altro incarico, che durò per tutti i 3 mesi di prigionia a Jarmen, insaccavo tutto ciò che rimaneva dalla lavorazione della barbabietola. Passò il Natale e si stava avvicinando l'inizio del nuovo anno, il '45. Il 28 dicembre, un agente di polizia tedesco incaricato di perquisire i nostri alloggi trovò nascosto dello zucchero, non ancora raffinato che avevamo sottratto dallo zuccherificio, per poterlo scambiare con altri deportati. Non siamo stati né interrogati né maltrattati, ma siamo stati, immediatamente, trasferiti in un altro lager. Dopo diverse ore di viaggio arrivammo a Berlino, ci accompagnarono in una stazione ferroviaria sotterranea della città , per essere trasportati nel lager di Leitmeritz, nei pressi di Praga. Una volta arrivati ci rinchiusero in uno stanzone vuoto e freddo, qui passammo la notte accoccolati sul pavimento, l'uno vicino all'altro per sentire meno il freddo: all'alba ansiosi di vedere dove eravamo stati portati, ci avvicinammo alle finestre, dove vedemmo 3 grossi carri a due ruote trainati da cavalli, fermi sulla strada principale. Una squadra di prigionieri stava caricando dei voluminosi sacchi accatastandoli uno sopra all'altro, subito ci rendemmo conto cosa contenevano quei sacchi, erano cadaveri. Il giorno dopo ci portarono a lavorare in miniera. A Leitmeritz ci rimasi 3 mesi e mezzo, per fortuna il comportamento dei tedeschi verso i prigionieri andava migliorando, forse perchè si erano resi conto che la Germania aveva ormai perso la guerra.

5) Quando è stato liberato e ad opera di chi?

Nel pomeriggio del 7 maggio i tedeschi diedero l'allarme d'invasione e scomparvero, noi rimanemmo in attesa nelle baracche. All'esterno non si vedeva anima viva. Verso le 9 del giorno seguente, abbiamo visto arrivare, velocemente, in bicicletta per una stradetta di campagna, un individuo che teneva una mano alzata, in segno di avvertimento e attenzione. Egli raggiunse l'entrata del lager, entrò e si qualificò . Era un partigiano cecoslovacco. Comunicò che aveva ricevuto l'ordine di avvertire i prigionieri che si trovavano nei lager della zona di non muoversi per nessun motivo, l'esercito russo si stava avvicinando. I miei connazionali ed io, noncuranti dell'ordine, uscimmo dal lager per andare incontro all'esercito, che incontrammo e che ci rifornì di cibo e di tabacco sequestrato nei magazzini tedeschi, ma che proseguì nella sua avanzata. Ritornammo al lager, riposammo e il mattino seguente decidemmo di metterci in marcia, per raggiungere gli americani. Sul nostro cammino incontrammo uno sbarramento russo che aprì il fuoco e fummo costretti a tornare indietro, ma non ci arrendemmo e cercammo altre vie di fuga, per raggiungere la nostra Italia. Nella nostra fuga passammo per la città di Brno , dove potemmo ammirare lo Spielberg, fortezza austriaca trasformata in prigione e nella quale vennero incarcerati molti patrioti italiani, tra cui l'autore de "Le mie prigioni", Silvio Pellico. Dopo 16 giorni arrivammo a Vienna, qui cercammo di eludere la sorveglianza russa, ma inutilmente, ci fermarono e ci portarono in un centro di raccolta della città. Il mattino seguente da Vienna, scortati dai Russi, ci mettemmo in cammino verso il lager di Kaisersteinbruch, dove arrivammo dopo 2 giorni. In questo ex lager tedesco, potremo riposare e stare in compagnia di altri Valtellinesi parlando il dialetto dei nostri Paesi, delle nostre valli e dei nostri monti. Il giorno 22 agosto del '45, il comando russo dei lager diede l'ordine di partenza immediata per l'Italia. Dopo 3 giorni raggiungemmo in treno Verona, dove i reduci venivano smistati, a seconda della loro destinazione: a nord o a sud del Po. Il 29 agosto arrivai a Milano, da li, costeggiando il Lago di Como, arrivai ad Ardenno, la mia fermata. Scesi dal treno e meravigliato trovai ad aspettarmi il più giovane dei miei fratelli, che da giorni ormai si recava alla fermata nella speranza di vedermi tornare ed insieme tornammo a casa.

6) Come è stato il suo ritorno a casa?

Mia madre mi vide, lascio a voi immaginare quell' incontro. Certi particolari momenti della vita, non possono essere descritti, non ci sarebbero le parole giuste. Trovai mio padre invecchiato, poi lui e la mamma piansero, mentre io non riuscii a versare una lacrima: le sofferenze mi avevano indurito a tal punto. Dopo aver consumato il pasto fui accompagnato in camera e messo a letto, così come si fa con i bambini. Nel letto mi sembrava di affondare, abituato com'ero a dormire sulla nuda terra e non mi fu facile trovare il modo di farlo, mi venne quasi la tentazione di stendermi sul pavimento della camera, ma non lo feci, avrebbero potuto prendermi per pazzo. In quello stesso giorno mi recai sulle rive del torrente Masino e lì mi lasciai trasportare dai ricordi: le infinite tribolazioni sofferte, la fame, la fatica, i malanni e tutti i pericoli corsi in questi 2 anni. Pensai alla grande volontà di resistenza, che mi aveva sempre sostenuto durante la lunga prigionia e alla speranza che ho sempre avuto di tornare a casa. Mi sentivo alquanto spaesato e frastornato, mi sembrava di essere diventato un altro. Non ero più il giovane ventenne con un bel diploma in tasca e tanti bei sogni in testa. La guerra aveva spazzato via tutto. Dopo 50 anni con mio figlio, mi recai a Monte Sant'Angelo (Foggia), per ritrovare il mio più caro amico di prigionia, Falcone Giuseppe nato nel 1912 e che mi aveva fatto da padre, non trovandolo chiesi informazioni al Municipio, dove due vigili, gentilmente si offrirono di accompagnarci nella sua nuova abitazione a Manfredonia. In un primo momento il mio amico non mi riconobbe e quindi mi misi a raccontare alcuni episodi, per poter risvegliare la sua memoria, durante questa narrazione, mi accorsi che il più giovane dei vigili era in lacrime. Ci volle un po' di tempo, perché il mio amico si ricordasse di me, ma poi ci ritrovammo in un lungo abbraccio.

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