OPPOSIZIONE IN ITALIA - Valtellina

DON GIUSEPPE CAROZZI (BIOGRAFIA)

Giuseppe Carozzi nacque a Motta di Villa di Tirano (Sondrio) il 14 febbraio 1918, figlio di Andrea e di Elisabetta Schivardi. Dopo aver frequentato le scuole dell'obbligo, iniziò gli studi religiosi presso il Seminario Diocesano di Como e, qualche anno prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, si trasferì a Roma per proseguire gli studi di teologia presso la Pontificia Università Gregoriana, ove conseguì la laurea in Teologia Dogmatica. Ordinato Sacerdote a Como nel corso del 1940, dopo aver conseguito la licenza in Sacra Scrittura fu nominato Professore di Dogmatica speciale e sacra Scrittura presso il Seminario teologico di Como. Dopo la fuga in Svizzera, nel settembre 1943, Don Carozzi collaborò attivamente con la Legazione Italiana di Berna in favore del Movimento di Liberazione Nazionale. Organizzò un servizio di corriere da e per l'Italia, favorendo anche il rientro in Patria di partigiani in precedenza rifugiati nella Confederazione, e agevolò il passaggio di fondi attraverso la frontiera in favore dei gruppi partigiani. Per il contributo offerto alla Resistenza, Don Giuseppe Carozzi ricevette, il 28 settembre 1945, un Attestato di Benemerenza da parte del Comando Militare Alleato - Special Force. Nel dopoguerra fu nominato insegnante di religione presso il Liceo scientifico "P. Giovio" di Como. Il suo vero interesse, però, era rivolto alla teologia: con l'Editore Marzorati concordò la realizzazione di una collana di vasto respiro, alla quale dedicò tutte le sue energie. Colpito da un male incurabile, Don Carozzi si spense il 23 marzo 1955.

GLI EBREI INTERNATI ALL' APRICA

Dopo l'aprile 1941, la località di San Pietro di Aprica fu scelta dalle autorità fasciste per internarvi una parte degli ebrei residenti nell'area Balcanica al momento dell'invasione italiana della Yugoslavia. L'internamento ebbe inizio nell'aprile del '41 e coinvolse migliaia di uomini e donne che furono deportati in massa, soprattutto allo scopo di ridurre l'appoggio popolare al movimento partigiano yugoslavo; circa 2000, di razza ebraica, furono internati in aree geografiche dell'Italia Nord-Orientale. Quando le località di internamento furono sature, il Ministero dell'Interno ne scelse di ulteriori e, in questa occasione, fu individuato il comune di Aprica, dal momento che, essendo luogo di villeggiatura, disponeva di numerosi alberghi e pensioni non utilizzati, perchè la guerra aveva ridotto il turismo invernale ed estivo; inoltre la località si trovava lontano dalle aree di operazioni militari e, soprattutto, dalle grandi città industriali, spesso obiettivo di azioni di bombardamento. Un primo gruppo di ebrei raggiunse l'Aprica il 29 settembre 1941, quasi tutti provenienti dalla Slovenia, dalla Dalmazia, dalla Croazia e dalla Bosnia. Si trattava, molto spesso, di interi gruppi familiari, ma anche di singoli individui, i quali furono sottoposti alla disciplina del cosiddetto "confino di polizia". All'Aprica gli ebrei si sistemarono in case private o in alberghi ormai privi di clientela ("Mirafiori", "Aprica", "San Pietro"). Alcuni erano professionisti (medici, ingegneri, avvocati, insegnanti, ecc.), altri commercianti o impiegati; tra i 272 ebrei di Aprica ben 218 erano considerati "poveri". La situazione rimase stazionaria almeno per tutto il 1942, poi il numero degli ebrei aumentò fino ad arrivare a 300 unità nel 1943. Gli ebrei ad Aprica condussero una vita serena e mantennero sempre rapporti cordiali con gli abitanti della località. In quel periodo Aprica era frequentata da Monsignor Giovanbattista Montini, il futuro Papa Paolo VI, il quale, durante i periodi di vacanza che trascorreva in Valcamonica, raggiungeva spesso la località valtellinese per farsi confessare dal parroco, Don Stefano Armanasco, e per incontrare Don Giuseppe Carozzi. Durante l'estate del 1943, Don Carozzi, che parlava diverse lingue, si avvicinò moltissimo alla comunità ebraica aprichese.

L'ESPATRIO DEGLI EBREI IN SVIZZERA

Dopo l'8 settembre 1943 anche per gli ebrei di Aprica il destino sarebbe stato segnato se non ci fosse stato il provvidenziale intervento della Chiesa cattolica, dei Carabinieri e della Guardia di Finanza. Approfittando della vicinanza del confine tra Italia e Svizzera, Don Carozzi, che in quel settembre 1943 si trovava in vacanza a Motta di Villa di Tirano, con l'aiuto del parroco di Aprica, Don Stefano Armanasco, organizzò con il capo della comunità, Bernardt Fischmann, la fuga degli ebrei, poco prima che le truppe tedesche invadessero la zona. Per attuare il piano, però, occorreva l'aiuto dei Carabinieri (ai quali competeva la custodia degli internati) e delle Guardie di Finanza che presidiavano il confine con la Svizzera. Il Brigadiere Pilat dei Carabinieri dichiarò subito la propria disponibilità a Don Carozzi, con l'avallo del suo superiore, il Ten.Col. Edoardo Alessi, comandante del Gruppo Carabinieri di Sondrio.

Il sacerdote si recò quindi dal Capitano Leonardo Marinelli, allora Comandante della Compagnia di Madonna di Tirano. "Verso le ore 10 si presenta da me un sacerdote: è Don Giuseppe Carrozzi (sic), di Motta dell'Aprica. Dice di aver avuto l'incarico dalla Santa Sede di proteggere gli ebrei Jugoslavi internati all'Aprica. Mi chiede il permesso di far passare in Svizzera quegli infelici: acconsento ben volentieri. Del resto fin dall'8 settembre le mie guardie hanno lasciato passare tutti quelli che lo hanno voluto. Talvolta hanno perfino portato i bagagli dei fuggitivi"(1). Il Capitano Marinelli aderì immediatamente alla richiesta. Gli ebrei, divisi in gruppi, lasciarono l'Aprica accompagnati da Don Carozzi e da Don Cirillo Vitalini. Alcuni furono caricati su un autobus di linea, che a più riprese li portò a Tirano, mentre gli altri raggiunsero la località di Fontanelle a piedi. Grazie al Capitano Marinelli molti si rifugiarono a Campocologno, dove giunsero con la scorta delle Fiamme Gialle più esperte della montagna, percorrendo le cosiddette "vie dei contrabbandieri". L'ultimo gruppo di ebrei, circa una ventina, lasciò l'Aprica il 14 settembre '43, rifugiandosi nella canonica di Don Tarcisio Salice, il giovane parroco di Roncaiola, al quale il collega di Tirano, Don Pietro Angelini aveva inviato nel frattempo altri clandestini. I fuggiaschi raggiunsero finalmente la Svizzera attraverso il valico di Sasso del Gallo, dopo essere miracolosamente scampati alla cattura da parte dei nazi-fascisti.

IL RUOLO DELLA SANTA SEDE

Esistono numerosi indizi che portano alla conclusione che fossero state emanate precise "disposizioni verbali" da parte dei vertici della Chiesa, verosimilmente del Papa stesso, affinchè il clero si impegnasse, anche a costo della vita, nel soccorso agli ebrei. Un'ulteriore conferma circa l'esistenza di specifiche disposizioni di Pio XII risulta dalle dichiarazioni del Console onorario di Israele a Milano, che affermò: "quando a Venezia fui ricevuto dal Cardinale Roncali e gli espressi la riconoscenza del mio Paese per la sua azione a favore degli ebrei al momento in cui era in Turchia, durante la guerra, egli mi interruppe ripetutamente per ricordarmi che ogni volta aveva agito per ordine di Pio XII"(2). È necessario, comunque, precisare che non risulta che Don Carozzi abbia mai ricevuto disposizioni scritte di adoperarsi per il salvataggio degli ebrei. Quanto affermato dal sacerdote al Capitano Marinelli, riguardo al fatto di aver ricevuto l'incarico di portare in salvo gli ebrei dell'Aprica direttamente dalla Santa Sede, corrisponde forse a verità, visto che Giovanbattista Montini, diretto collaboratore di Pio XII, e Don Carozzi si conoscevano da tempo. Inoltre il sacerdote valtellinese era molto vicino ai Gesuiti e alcuni appartenenti all'Ordine erano funzionari e addetti alla Segreteria di Stato Vaticana e, pertanto, in quotidiano contatto con il Papa. Lo stesso Mons. Montini, del resto, conosceva benissimo il dramma che stavano vivendo gli ebrei in Italia ed è ovvio immaginare che l'alto prelato, in occasione delle sue frequenti visite al parroco di Aprica, fosse venuto a conoscenza della presenza degli ebrei e che, nell'imminenza dell'armistizio tra Italia ed alleati, si fosse preoccupato della loro sorte. Non potendosi esporre personalmente, a ragione della sua alta carica Vaticana, è probabile che abbia incaricato Don Carozzi di organizzare il salvataggio. Don Carozzi continuò, con incredibili rischi personali, ad essere un punto di riferimento per tutti i fuggiaschi che transitavano nella zona e creò una capillare "rete di appoggio", della quale facevano parte anche Don Gino Menghi, parroco di Baruffini di Tirano, Don Pietro Angelini, prevosto di Tirano, Don Felice Cantoni, parroco di Rogorbello di Vervio, Don Tarcisio Salice, parroco di Roncaiola di Tirano e Don Cirillo Vitalini, parroco di Bratta di Bianzone.
Tratto da: "L'attività di Don Carozzi, emissario occulto di Pio XII, in collaborazione con la Guardia di Finanza della Valtellina per il salvataggio degli Ebrei internati all’aprica" (Settembre 1943) di LUCIANO LUCIANI e GERARDO SEVERINO (Presidente e direttore del Museo Storico della Guardia di Finanza in Roma)
(1) Relazione del Cap. Leonardo Marinelli in data 27 agosto 1945. In A.M.S.G.F. - Miscellanea - Fondo Resistenza e Guerra di Liberazione
(2) Dal quotidiano "Le Monde" di Parigi, 13 dicembre 1963

DON CIRILLO VITALINI

Io sono il Sacerdote Cirillo Vitalini, nato a S. Antonio Valfurva il 14 dicembre 1915. Parroco a Bratta, frazione di Bianzone, dal 1939 al 1957 e poi a Stazzona. Nel 1935 nel Seminario diocesiano di S. Abbondio frequentavo la 3ª liceo. Da Como partiva un treno con vari reparti di "camicie nere" dei paesi circonvicini per la guerra di Abissinia. Era trapelata la notizia e noi seminaristi eravamo alle finestre delle camerate per vederli passare, un treno lungo, pieno zeppo: essi guardavano dai finestrini, ma senza tanto entusiasmo. Noi invece con repressa sofferenza li salutavamo. Qualcuno però, mezzo esaltato, cantava: "Ce ne freghiamo delle sanzioni / e che c'importan le importazioni? Oggi l'Italia sa far da sè / e tira dritto col suo Duce e col suo Re". La canzoncina mi ricorda un altro episodio: nell'estate del '36 arrivarono a S. Caterina degli Avanguardisti detti "Sciatori dell'Urbe", provenienti da Roma, a fare un corso estivo di esercitazioni, con tanto di marce e fanfare: era una nota di allegria. La loro banda suonava perfino durante la S. Messa. Una domenica, però, (dopo la S. Messa si dava anche la Benedizione eucaristica, poi tutti i vallegiani si sparpagliavano sui maggenghi) il Parroco salì l'altare per benedire con l'Ostensorio la comunità. In quel breve intervallo di silenzio, la banda, che era in sacrestia, credendo che tutto fosse finito, attaccò una marcia militare fragorosa che durò parecchio; vedo ancora la faccia del celebrante corrucciata e sformata dall'ira, che esplose poi in sacrestia col capobanda. Nel 1940 ricevetti la "cartolina precetto", il giorno della SS. Trinità, mentre Bratta e Bianzone compivano l'annuale processione al Santuario della Madonna di Tirano; in forza del Concordato tra Italia e la Santa Sede, quale parroco fui esonerato dal servizio militare. Due anni dopo, Monsignor Macchi, Vescovo di Como, pubblicava sull'Ordine (quotidiano della Diocesi di Como) un invito ai giovani sacerdoti perchè alcuni di loro si prestassero per l'ufficio di Capellani militari sul fronte greco-albanese. Io risposi: "Eccellenza, se ha bisogno, ci sono anch'io" ed Egli: "Ne ho già tre.

Attendi! Ma chi manderò alla Bratta?". Conservo ancora la lettera. Il 9 o 10 di settembre 1943 arrivarono i soldati tedeschi a Tirano, silenziosa e mezza deserta; incontrai in bicicletta, al ponte del Poschiavino, il primo reparto a piedi e con profondo rammarico pensai: "Ecco che arrivano!". Immediatamente Don Giuseppe Carozzi di Motta mi inviò ottanta Ebrei da Aprica (dove erano confinati da mesi), donne, bambini, uomini con valige da indirizzare in Svizzera. Parlai prima con il Brigadiere della Guardia di Finanza a Campione sopra Bratta. Essi li presero sotto la loro protezione, li accompagnarono e poi, con loro, si rifugiarono tutti oltre confine. Da quel giorno molte persone salirono a Bratta e per espatriare; parecchie bussarono anche alla mia porta di giorno e di notte. Passò anche un nutrito gruppo di ex soldati italiani che si rifugiarono in Svizzera: erano trafelati; mia sorella Maria preparò loro una pentola di thè, che fu molto gradito. Ricordo che, una notte, Zeno Colò, famoso sciatore d'altri tempi, arrivò a casa mia. Anche lui era un ex soldato e fuggitivo. Nel luglio del 1944, con due ragazzi di Bratta (Morellini Albino e Bonadeo Franco, già morto) stavo andando a Plaghera (S. Caterina Valfurva) a trovare i miei genitori. A Uzza, dopo Bormio, era stato ucciso dai partigiani un repubblichino e lì sul posto c'erano i suoi camerati furenti. Mi fermarono: "Dove va?" "A S. Caterina a trovare i genitori" risposi. Essi incalzarono: "O a trovare i partigiani? Dica loro che noi li aspettiamo qui e lo dica anche al suo Capo a Roma" (il Papa): il colmo! Mi lasciarono andare. Davanti al cimitero di S. Nicolò Valfurva udimmo degli spari e degli scoppi e una colonna di fumo si era innalzata da Uzza. I fascisti per ritorsione avevano bruciato il paese. Tornai indietro. Bruciava anche la casa di mia sorella, Erina. Sfondai la porta della camera e, per salvare il salvabile, cominciai a buttare ciò che potevo sul prato circostante. Appena sceso (le fiamme invadevano la stanza) mi sentii dire: "Ma lei è Don Cirillo! Guardi che ci sono due partigiani feriti e moribondi colpiti dai repubblichini. Ha l'Olio Santo?" Mi dettero una bicicletta e corsi a S. Nicolò (il Parroco non c'era). Presi in Chiesa gli Oli Santi e ritornai. I due moribondi erano piantonati da cinque collaborazionisti russi, con l'uniforme tedesca. Mi inginocchiai davanti ai due e amministrai il Sacramento: "Se vivi, per questa Santa Unzione, ti perdoni il Signore tutte le tue colpe".

I militi non fecero parola nè prima nè poi, lasciarono fare. Forse cattolici o ortodossi, ad ogni modo credenti. Poco tempo dopo Don Camillo Valota, Parroco di Frontale, fu arrestato a Bianzone (in località Prada) mentre accompagnava quattro aviatori inglesi, evasi dalle prigioni nazifasciste, che volevano passare in Svizzera. Aveva disubbidito a un mio preciso consiglio, consegnato per iscritto (e nascosto nelle calze) al ragazzo che egli aveva mandato a chiedermi informazioni: "Precedili o seguili e venite per la campagna e i vigneti". Invece egli travestì gli aviatori con i suoi abiti talari e, sceso dal treno, passò nel centro di Bianzone davanti al Municipio, dove c'era il segretario repubblichino di origine toscana. Egli si accorse che questi giovani non erano preti perchè gli abiti talari del piccolo Don Valota arrivavano loro quasi alle ginocchia: li fece immediatamente seguire e arrestare. Portati a Villa di Tirano, gli aviatori tornarono prigionieri e Don Camillo, dopo il campo di concentramento italiano di Fossoli, fu internato nel lager di Mauthausen. Dopo la liberazione Don Valota ricoprì decorosamente per quarant'anni la carica di Cappellano degli italiani emigrati in Francia. Subito dopo questo fatto Don Francesco Cantoni, Parroco di Bianzone, mi disse: "Fuggi in Svizzera, ti cercano!" Dormii per una settimana nel sottotetto della scuola (che aveva la scala retraibile), finchè il buon Zamariola fece sapere che la cosa si era appianata. Il 13 settembre 1944 i soldati tedeschi, che occupavano la Caserma della Finanza a Campione sopra Bratta, si spostarono momentaneamente a Teglio. A caserma vuota qualcuno ne approfittò: sparirono una trentina di coperte e altrettante lenzuola. I pastorelli (e con loro molti altri), trovate aperte le porte, completarono il saccheggio. Approfittando del telefono che collegava la caserma alla Tenenza di Tresenda i ragazzi misero sull'attenti la Guardia di Finanza che avvisò le autorità nazifasciste. Il giorno dopo giunse voce a Bratta che soldati tedeschi da Campione e repubblichini da Bianzone sarebbero arrivati nella frazione per incendiarla. Fu un fuggi fuggi generale, chi verso la Svizzera in località "Bonget", chi verso il basso. La frazione era deserta. Restò solo il parroco; chiesa, casa, archivio e le umili casette con la segale come alimento invernale. Che fare? Ultima risorsa: affrontare i potenziali incendiari tedeschi e fascisti! "Non ci sono partigiani, non sono stati loro" avrei detto "ma ragazzi irresponsabili". Sapevo che quelli non scherzavano. Ma raccomandatomi a Lui, il Signore, e forte del buon fine che avevo, partii verso la caserma di Campione. Sbucato dal bosco sul prato sotto la caserma vidi una decina di soldati tedeschi, con i mitra spianati contro di me, con l'intenzione di fare fuoco: mi avevano scambiato per un partigiano. Qualcuno li trattenne; "Sentiamo che dice".

Poteva essere stato Nemesio Pasquale che era lassù con la "priala" (carro a due ruote usato nelle strade selciate di montagna) incaricato di portare giù i resti del saccheggio. Lo ringrazio e prego per lui, morto da due anni. Fui accolto dall'ufficiale tedesco con una sola frase: "Scendere e sparare! Scendere e sparare!". Quando spiegai al soldato interprete quello che intendevo dire, capirono, si guardarono, si consolarono e scendemmo tranquilli verso Bratta, dove fecero niente di niente; vollero solo il risarcimento del danno. Una loro frase però mi colpì: "Noi siamo della Whermacht (esercito regolare tedesco) ma se ci fossero le SS* sarebbe diverso". Pensai che anche loro fossero credenti, umani. Le SS no; la barbarie maggiore venne da loro. La faccenda durò una decina di giorni, su e giù da Bratta a Bianzone a piedi, finchè riuscii a raggranellare come estrema ratio le 70.000 lire richieste (50.000 lire alla Bratta e 20.000 lire a Piazzeda), oltre alla restituzione della parte recuperata del saccheggio. Il 29 gennaio 1945 ci fu il bombardamento degli Alleati alla stazione ferroviaria di Bianzone: quattro aerei bombardarono la linea senza gravi conseguenze, poi tornarono a bassa quota e mitragliarono la stazione. Tre persone morirono all' istante: un certo Resta di Villa, una signora di Piazzeda e un'altra di Ardenno; ferirono un certo Battaglia e la signorina Lucia Mazza, mastra a Motta, che era sorella di un mio compagno di sacerdozio, Don Angelo. Ero a Tirano all'Istituto Santa Croce dove studiava mia sorella Amalia; sentito il bombardamento mi precipitai con la bicicletta verso Bianzone sospinto da una leggera tormenta di neve. Sul posto era già presente il Prevosto di Bianzone, Don Francesco Cantoni, che assistette il Battaglia; la maestra Mazza, ormai agonizzante, appena mi vide ebbe un sussulto: forse mi aveva scambiato per il suo fratello prete. Purtroppo, morirono entrambi, dopo aver ricevuto l'Estrema unzione. Qualche giorno prima della fine della guerra, verso sera, arrivarono a Bratta (lo facevano spesso) sei o sette repubblichini. Si fermarono da me, chiedendomi di entrare a far cuocere alcune uova e mangiare un boccone; li accolsi. Nel frattempo giungeva mia sorella Maria che era andata verso "la bassa" (pianura padana) a comperare un po' di farina e riso. Annunciò con poca discrezione che la guerra stava per finire. Il gruppetto di militi impallidì, affrettò la cena, ringraziò e poi scomparve. Verso dove? Forse verso la Svizzera, se erano in tempo ad essere accolti. Il 28 aprile, con la battaglia di Tirano e la resa dei nazifascisti, segnò la fine di quel lungo incubo. Quando penso alla Jugoslavia colpita dalla guerra e alla tristissima sorte di tanti bambini, ricordo tanti anni fa il mio paese, S. Antonio Valfurva, e noi bambini nel periodo della grande guerra. Non eravamo nelle loro condizioni, ma certamente molto simili. Anche il mio paese fu bombardato diverse volte dagli austriaci che ci stavano proprio sopra, sul monte Cristallo, alto 3431 metri. Rammento ancora: nel giugno del 1918 stavo in cucina accanto a mia madre che sbucciava le patate. A un certo punto un fischio e uno scoppio. A cento metri sulla riva sinistra del torrente Frodolfo era caduta una bomba austriaca. "Gesù mio, misericordia"; esclamò mia madre, poi mi prese per un braccino e mi portò di sotto nella stalla vuota, forse più sicura perchè col soffitto a volte.

Caddero altre bombe e bruciò qualche casa. Quella sera, calate l'ombre, una piccola comitiva si avviò verso la località Presura protetta da uno sperone di roccia a un chilometro da Sant'Antonio e in un fienile, sparsa un po' di paglia, dormì. Il mio padrino di battesimo mi ci aveva portato a cavalluccio. E me lo ricordo tante volte. Tutt'altra cosa fu il 4 novembre 1918! Le campane, da tempo silenziose, suonavano a distesa; gli alpini lasciati i nostri monti entrarono ordinati, cantando in paese; la gente sul bordo della strada li applaudiva. In prima fila c'ero anch'io. Un giovane alpino, allegramente scherzando, buttò per terra il suo pesante zaino e mi disse: "Portalo a casa, te lo regalo". Mi prese tra le braccia mi alzò in alto, mi baciò e poi delicatamente mi pose a terra. Se tutti gli uomini trattassero il loro prossimo come quell'alpino non ci sarebbero più guerre: "Inutili stragi, avventure senza ritorno", come dissero Benedetto XV e Giovanni Paolo II.
Stazzona, 20 Agosto 1995


Tratto da: "Interviste a reduci della Seconda Guerra Mondiale raccolte nel 1995 a Villa di Tirano e nelle frazioni di Stazzona e Motta e coordinate da Giuseppe Pasini."
Don Cirillo Vitalini si è spento il 23 Luglio 2003.
Per aver salvato tante vite durante la seconda guerra mondiale e il paese di Bratta da un incendio di ritorsione per il saccheggio della caserma della Guardia di Finanza a Campione, Don Cirillo è stato insignito nell'aprile 1995, in occasione del cinquantesimo anniversario della liberazione, di un Diploma di benemerenza dal Presidente della provincia di Sondrio Enrico Dioli.

la chiesa e il nazismo

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