OPPOSIZIONE POLITICA

LIBERALI:

Non tutta la società italiana approvò e appoggiò il fascismo. Inizialmente gli antifascisti furono soprattutto intellettuali ed esponenti delle forze politiche di opposizione, e quindi di Sinistra, che Mussolini non tardò a dichiarare illegali. Molti di loro subirono il carcere o il confino: furono obbligati cioè a vivere isolati, lontani dalla loro residenza. Altri furono assassinati o dovettero abbandonare l'Italia. Le forze antifasciste però erano molto diverse fra loro e ciò rese molto difficile la loro unità, indispensabile per abbattere il regime. Furono antifascisti uomini appartenenti alla tradizione liberale come Benedetto Croce, Luigi Albertini (direttore del quotidiano "Corriere della Sera" dal 1900 al 1925), Giovanni Giolitti, Francesco Saverio Nitti. Essi in un primo momento avevano guardato con simpatia al fascismo, ma poi ne avevano condannato l'autoritarismo. Un posto di riguardo ebbe il filosofo Benedetto Croce, in qualità di autore del Manifesto Antifascista dove lui stesso afferma che se gli intellettuali, come cittadini, esercitano il loro diritto e adempiono il loro dovere con l'iscriversi a un partito e con il servirlo fedelmente, come cultori delle scienze e dell'arte hanno il dovere di innalzare tutti gli uomini e tutti i partiti a una più alta sfera spirituale in modo da combattere le lotte necessarie. Varcare questi limiti, contaminare politica e letteratura, politica e scienza, è un errore che quando si fa, come nel caso del Fascismo, per patrocinare violenze, prepotenze, soppressione della libertà di stampa, "non può neppure dirsi un errore generoso". Il Croce esorta quindi gli intellettuali a tenersi al di fuori o al di sopra della lotta politica, a non "contaminare" con essa la letteratura o la scienza, ignaro, sembra, del fatto che la nuova tirannide renderà la vera cultura impossibile a molti, perché si impadronirà dei mezzi di diffusione.

DEMOCRATICI:

Accanto ai liberali operavano le forze di ispirazione democratica. Essi sostenevano che solo la collaborazione tra la classe operaia e la borghesia avrebbe potuto sconfiggere il fascismo. Principali esponenti furono Giovanni Amendola, Piero Gobetti, Gaetano Salvemini, un illustre professore universitario di storia che, pur di non giurare fedeltà al partito fascista, si dimise dall'insegnamento. In una lettera al rettore dell'università di Roma scrisse: "la dittatura fascista ha soppresso ormai completamente le condizioni di libertà necessarie per guidare l'insegnamento della Storia come io lo intendo perchè non è più uno strumento di libera educazione civile, ma si riduce a servile adulazione del partito dominante o a una pura e semplice esercitazione erudita estranea alla coscienza civile del maestro e dell'alunno. Sono costretto perciò a dividermi dai miei alunni e dai miei colleghi con dolore profondo, ma con la coscienza sicura di compiere un dovere di lealtà verso di essi, prima che di coerenza e di rispetto verso me stesso. Ritornerò a servire il mio paese nell'insegnamento quando avremo riacquistato un governo civile". Gobetti definisce subito il fascismo "movimento plebeo e liberticida", l'antifascismo "nobiltà dello spirito", l'Italia un Paese senza un vero Risorgimento, una Riforma protestante, una Rivoluzione democratica. Estimatore di Antonio Gramsci e del giornale socialista e poi comunista Ordine Nuovo, Gobetti si avvicina al proletariato torinese, divenendo attivo antifascista. A vent'anni, il 12 febbraio del 1922, fa uscire il primo numero della rivista "La Rivoluzione Liberale" che via via diventa centro di impegno antifascista di segno liberal-democratico, Vi collaborano intellettuali di diversa estrazione, tra cui Gramsci e Sturzo. Più volte arrestato nel '23-24 dalla polizia fascista, la sua rivista è ripetutamente sequestrata. Lo stesso Mussolini si interessa di lui e telegrafa al prefetto di Torino: "Prego informarsi e vigilare per rendere nuovamente difficile vita questo insulso oppositore".

Il 5 settembre del '24, mentre sta uscendo di casa, è aggredito sulle scale da quattro squadristi che lo colpiscono al torace e al volto, rompendogli gli occhiali e procurandogli gravi ferite invalidanti. Fu costretto a espatriare in Francia dove, con Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Gaetano Salvemini, nel 1929 fondò a Parigi il movimento”Giustizia e libertà” che cercava di unire gli ideali democratici con quelli socialisti. Mai più riavutosi dalle ferite, muore esule a Parigi nella notte tra il 15 e il 16 febbraio 1926.

PARTITO POPOLARE:

Antifascisti furono anche alcuni esponenti del disciolto Partito Popolare che Mussolini aveva dichiarato illegale come illegali erano tutti gli altri partiti, ad eccezione di quello fascista. Il fondatore, don Luigi Sturzo, e Alcide De Gasperi, un altro rappresentante del partito, furono costretti all'esilio. Proprio De Gasperi fu uno dei pochi leader popolari a non accettare accordi col regime benchè fosse stato, nel 1922, favorevole alla partecipazione dei popolari al primo gabinetto Mussolini. Dopo l’omicidio Matteotti, l’opposizione al regime e al Duce fu ferma e risoluta anche se coincise col ritiro dalla vita politica attiva a seguito dello scioglimento del Partito Popolare stesso ed al ritiro nelle biblioteche vaticane per sfuggire alle persecuzioni del fascismo. Dopo la caduta del regime e l'armistizio con gli Alleati, De Gasperi rifondò la Democrazia Cristiana clandestina, entrò nel Cln e definì il suo un "partito di centro che guarda verso sinistra".

PARTITO SOCIALISTA:

Un ruolo di primo piano nella lotta antifascista venne svolto, infine, da esponenti del Partito socialista come Francesco Turati e Sandro Pertini che si distinse per la sua energica opposizione al fascismo. Perseguitato per il suo impegno politico contro la dittatura di Mussolini, nel 1925 fu condannato a otto mesi di carcere e quindi costretto a un periodo di esilio in Francia per evitare una seconda condanna. Continuò la sua attività antifascista anche all'estero e per questo, dopo essere rientrato sotto falso nome in Italia nel 1929, fu arrestato e condannato dal Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato prima alla reclusione e successivamente al confino. Nel 1943, alla caduta del regime fascista, fu liberato e partecipò alla battaglia di Porta San Paolo nel tentativo di difendere Roma dall'occupazione tedesca. Nello stesso anno fu catturato dalle SS e condannato a morte, ma riuscì a salvarsi grazie a un intervento dei partigiani. Divenne in seguito una delle personalità di primo piano della Resistenza italiana e fu membro della giunta militare del Comitato di Liberazione Nazionale. Nell'Italia repubblicana fu eletto deputato all'Assemblea Costituente, quindi senatore nella prima legislatura e deputato in quelle successive, sempre rieletto dal 1953 al 1976. Ricoprì per due legislature consecutive, dal 1968 al 1976, la carica di Presidente della Camera dei deputati, per essere infine eletto Presidente della Repubblica Italiana l'8 luglio 1978. Andando spesso oltre il semplice ruolo istituzionale, il suo mandato presidenziale fu caratterizzato da una forte impronta personale che gli valse una notevole popolarità, tanto da essere spesso ricordato come il "presidente più amato dagli italiani".

PARTITO COMUNISTA:

Per il Partito comunista si distinsero Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti. In particolare, Gramsci fu fatto arrestare da Mussolini nel 1926. Restò in carcere fino al 1937, l'anno della sua morte. In questi lunghi anni scrisse i "Quaderni del carcere", l'opera più importante dell'antifascismo italiano. Per capire di cosa si tratta basta leggere il seguente brano tratto da una pagina del diario di Gramsci. "Il peggiore guaio della mia vita attuale è la noia. Queste giornate sempre uguali, queste ore e questi minuti che si succedono con la monotonia di uno stillicidio hanno finito per corrodermi i nervi. Almeno i primi tre mesi dopo l'arresto furono movimentati: sballottato da un estremo all'altro della penisola, sia pure con molte sofferenze fisiche, non avevo tempo di annoiarmi. Sempre nuovi spettacoli da osservare, nuovi posti da vedere: davvero mi pareva di vivere in una novella fantastica. Ma ormai è più di un anno che sono fermo a Milano. In carcere posso leggere ma non posso studiare perché non mi è stato concesso di avere carta e penna a mia disposizione, solo fogli contati per la corrispondenza, che è la mia sola distrazione. Il mio incarceramento è un episodio di lotta politica che si continuerà a combattere in Italia chissà per quanto tempo ancora. Io sono rimasto preso cos’è come durante la guerra si poteva cadere prigionieri del nemico, sapendo che questo poteva venire e che poteva avvenire anche di peggio".

IL CASO MATTEOTTI:

Le elezioni del 1924 furono una tappa importante per il consolidamento del potere fascista. Una nuova legge elettorale, pressioni e corruzioni d'ogni genere davano, nell'aprile 1924, i due terzi dei seggi alla " lista nazionale " presentata dai fascisti. Il 30 maggio il deputato socialista Giacomo Matteotti ebbe il coraggio di denunciare con un grande discorso alla Camera le violenze e i brogli commessi per carpire la vittoria; pochi giorni dopo veniva trovato in aperta campagna, assassinato da sicari delle camicie nere. L'omicidio sollevò nel Paese un'ondata d’indignazione e pose in immediato pericolo il nuovo regime, che riuscì in ogni caso a salvarsi, anche per l'errore dell'opposizione che giunse alla decisione di "ritirarsi sull'Aventino ". I parlamentari delle opposizioni, ad eccezione dei comunisti, abbandonarono l'aula fin dal 14 giugno, prima ancora, cioè, che fosse ritrovato il corpo del deputato socialista, per riunirsi in un'altra sala di Montecitorio e costituirsi in unico parlamento legittimo, visto che nel parlamento ufficiale era ormai impossibile esercitare ogni funzione libera per gli eletti del popolo. In quell'occasione fu votato un ordine del giorno che diede origine alla cosiddetta "secessione dell'Aventino", in ricordo di un famoso episodio della storia dell'antica Roma, quando i rappresentanti della plebe misero in atto una clamorosa protesta riunendosi su questo colle: "I rappresentanti dei gruppi di Opposizione, riunitosi oggi a Montecitorio, si sono trovati d'accordo nel ritenere impossibile la loro partecipazione ai lavori della Camera, mentre la più grave incertezza regna ancora intorno al sinistro episodio di cui è stato vittima l'onorevole Matteotti. Pertanto i suddetti rappresentanti deliberano che i rispettivi gruppi si astengano dal partecipare ai lavori parlamentari della Camera, e si riservano di constatare quella che sarà l'azione del governo e di prendere ulteriori deliberazioni". Fu proprio la monarchia a salvare i fascisti in crisi con una condotta che appare più che difficile assolvere. A questo proposito basterà ricordare, tra i tanti, qualche episodio da cui emerge la netta complicità di Vittorio Emanuele III nel mantenimento del fascismo al potere e nei successivi sbocchi dittatoriali. Carlo Sforza, che era cugino del re, ricorda: "Quando Ivanoe Bonomi presentò al re le prove della responsabilità di Mussolini, il sovrano cominciò a sfogliare; ma appena si rese conto di quanto terribili erano le accuse, impallidì, tremò e: "Le posso chiedere un piacere?". "Dica". "Non mi faccia leggere, si riprenda questi fogli" e glieli ficcò di forza nelle mani. E Bonomi, alzandosi: "Badi, Lei si prende una grossa responsabilità". Infatti fu in quel momento preciso che Vittorio Emanuele di Savoia divenne complice". In questo stato di cose, potendo contare sull'appoggio incondizionato del re, Mussolini e il fascismo superarono la crisi e giù il 5 dicembre il capo del governo replicò con tracotanza a un discorso di opposizione tenuto al Senato da Luigi Albertini, che era direttore del Corriere della Sera: "Se Sua Maestà il Re, al termine di questa seduta, mi chiamasse e mi dicesse che bisogna andarsene, mi metterei sull'attenti, farei il saluto e obbedirei. Dico se Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele III di Savoia, ma quando si tratta di Sua Maestà il Corriere della Sera, allora no".

I giochi erano fatti, come apparve chiaro il 3 gennaio 1925, quando, alla Camera, Mussolini poté dichiarare di assumere su di sé ogni responsabilità di tutto quello che era accaduto in Italia e dire che se il fascismo era un'associazione per delinquere, egli di quella associazione era il capo. Nel giro di un anno circa si susseguiranno le cosiddette "leggi fascistissime" cancellando ogni residuo di libertà. Come si susseguiranno le bastonature fatali a Giovanni Amendola e Piero Gobetti e a tanti altri meno noti, le condanne, il carcere, il confino. Per gli antifascisti cominciò la lunga attesa, in Italia o in esilio, con la lotta clandestina e la cospirazione. Tra il 1925 e il 1928 furono varate le leggi (cosiddette "fascistissime") che consacrarono la nuova struttura e lo strapotere dello Stato. Ogni speranza legalitaria o di ritorno alla legalità cadeva. Essa moriva con la soppressione della libertà di stampa, le persecuzioni contro gli antifascisti, col ripristino della pena di morte, l'istituzione di un tribunale speciale per reati politici, l'istituzione dell'O.V.R.A. (polizia politica segreta) e con l'attribuzione al potere esecutivo di emanare norme di legge. I normali meccanismi dello Stato di diritto e i fondamenti della libertà politica e della sovranità popolare vennero sovvertiti. A cominciare dal 1926 nelle amministrazioni comunali alla procedura elettiva del sindaco e del consiglio venne sostituita la nomina governativa del podestà e della consulta, cos’è da sconvolgere l'intero ordinamento centrale e periferico nel processo di fascistizzazione dello Stato. Il Parlamento risultò svuotato di ogni prerogativa e le elezioni (1929) furono ridotte a semplici plebisciti di approvazione di una "lista unica" di deputati designati dal Gran Consiglio. Il capo del governo, che era contemporaneamente duce del fascismo, prese ad occupare il vertice della piramide politica che simboleggiava l'ordinamento gerarchico del regime e venne sottratto a qualunque controllo o sanzione, con l'obbligo di rispondere solo al sovrano. Con le elezioni plebiscitarie del 1929 Mussolini poté contare su una Camera tutta composta da fascisti e il carattere totalitario del fascismo finì rapidamente per coinvolgere ogni settore della vita italiana.

OPPOSIZIONE NELLA LETTERATURA

L'AMBIENTE E I TEMI:

Come gli altri regimi totalitari europei del periodo compreso tra le due guerre mondiali, la dittatura fascista mira a esercitare un controllo totale sulla politica e la cultura italiane e sulla stessa vita quotidiana dei cittadini. Non si tratta soli di reprimere ogni forma di opposizione, ma anche di organizzare fattivamente il consenso mediante una propaganda martellante. I tratti distintivi dell'uomo nuovo è fascista devono essere la cieca obbedienza, la fede assoluta nel capo e la disponibilità a combattere in nome degli interessi superiori della patria. Non vi è spazio, in questo quadro, per l'esercizio della critica.

Molti intellettuali si adeguano senza difficoltà al nuovo stato di cose. Altri scelgono invece più o meno apertamente la posizione più scomoda dell’antagonista. La debolezza dell’antifascismo si spiega tuttavia in buona misura con la sua stessa divisione: le correnti politiche e culturali non allineate non riescono a trovare un punto di incontro neppure nella lotta contro il comune avversario. La loro condanna di Mussolini e delle violenze squadriste, per quanto sincera, è frutto più che altro di sdegno morale e intellettuale, mentre è del tutto assente una prospettiva unitaria sul piano propriamente politico. Inoltre dopo la crisi Matteotti, Mussolini fa imbavagliare la stampa e i sindacati, proibire le manifestazioni di piazza, mettere fuori legge i partiti indipendenti. A partire dal 1926 fu di fatto impossibile ogni espressione di dissenso, se si esclude il caso isolato di Benedetto Croce. Con ciò il ministero Mussolini si era trasformato in regime totalitario.

AUTORI E TESTI:

Benedetto Croce

L’ opposizione liberale-moderata e costituzionale ha il suo punto di riferimento in Benedetto Croce. A essa fanno capo tanto i liberali e liberal-democratici come Giovanni Amendola o Luigi Einaudi, quanto socialisti come Gaetano Salvemini, uomini di cultura moderati che vedono nel fascismo principalmente un movimento eversore dell’ ordinamento tradizionale e si aspettano un intervento del re per fermarlo.

Autore del celebre Manifesto degli intellettuali antifascisti del 1925, Croce conduce la sua battaglia contro il regime da molteplici punti di vista. Il suo antifascismo è quello di un intellettuale raffinato che freme di sdegno di fronte alla rozza retorica, alla superficialità e al confuso irrazionalismo di un movimento prevaricatore e brutale; è espressione di rigore morale, di amore per quei valori di libertà, onestà intellettuale e aspirazione alla giustizia di cui il totalitarismo fascista rappresenta la negazione. In ogni caso Croce spera in un rientro del fascismo nella legalità una volta ripristinato l'ordine.

Il manifesto degli intellettuali Antifascisti

Il 21 aprile del 1925 il filosofo Giovanni Gentile rende pubblico un Manifesto nel quale il fascismo viene presentato come espressione autentica dello “spirito italiano” e ne viene sottolineata la continuità con il movimento risorgimentale. Gentile rivendicava i meriti del regime, capace di riportare ordine in una società che ha dimenticato il senso di appartenenza del singolo cittadino alla "totalità", lo Stato.

Il 1° maggio successivo Benedetto Croce risponde con un Manifesto degli intellettuali antifascisti. Il documento crociano rappresenta una delle più lucide e puntuale critiche della “dottrina” fascista, bollata di inconsistenza e confuso irrazionalismo, e una delle più vigorose affermazioni della dignità e dell'indipendenza del lavoro intellettuale, che non può essere costretto nella camicia di forza di una ideologia.

Il testo del manifesto Antifascista:

Gli Intellettuali fascisti, riuniti in congresso a Bologna, hanno indirizzato un manifesto agli intellettuali di tutte le nazioni per spiegare e difendere innanzi ad essi la politica del partito fascista. Nell'accingersi a tanta impresa, quei volenterosi signori non debbono essersi rammentati di un consimile famoso manifesto, che, agli inizi della guerra europea, fu bandito al mondo degli intellettuali tedeschi; un manifesto che raccolse, allora, la riprovazione universale, e più tardi dai tedeschi stessi fu considerato un errore. E, veramente, gli intellettuali, ossia i cultori della scienza e dell'arte, se, come cittadini, esercitano il loro diritto e adempiono il loro dovere con l'iscriversi a un partito e fedelmente servirlo, come intellettuali hanno il solo dovere di attendere, con l'opera dell'indagine e della critica e le creazioni dell'arte, a innalzare parimenti tutti gli uomini e tutti i partiti a più alta sfera spirituale affinché con effetti sempre più benefici, combattano le lotte necessarie. Varcare questi limiti dell'ufficio a loro assegnato, contaminare politica e letteratura, politica e scienza è un errore, che, quando poi si faccia, come in questo caso, per patrocinare deplorevoli violenze e prepotenze e la soppressione della libertà di stampa, non può dirsi nemmeno un errore generoso. E non è nemmeno, quello degli intellettuali fascisti, un atto che risplende di molto delicato sentire verso la patria, i cui travagli non è lecito sottoporre al giudizio degli stranieri, incuranti (come, del resto, è naturale) di guardarli fuori dei diversi e particolari interessi politici delle proprie nazioni. Nella sostanza, quella scrittura è un imparaticcio scolaresco, nel quale in ogni punto si notano confusioni dottrinali e mal filati raziocini; come dove si prende in scambio l'atomismo di certe costruzioni della scienza politica del secolo decimottavo col liberalismo democratico del secolo decimonono, ciò laantistorico e astratto e matematico democraticismo, con la concezione sommamente storica della libera gara e dell'avvicendarsi dei partiti al potere, onde, mercè l'opposizione, si attua quasi graduando, il progresso; o come dove, con facile riscaldamento retorico, si celebra la doverosa sottomissione degli individui al tutto, quasi che sia in questione ciò, e non invece la capacità delle forme autoritarie a garantire il più efficace elevamento morale; o, ancora, dove si perfidia nel pericoloso in discernimento tra istituti economici, quali sono i sindacati, ed istituti etici, quali sono le assemblee legislative, e si vagheggia l'unione o piuttosto la commistione dei due ordini, che riuscirebbe alla reciproca correttezza, o quanto meno, al reciproco impedirsi. E lasciamo da parte le ormai note e arbitrarie interpretazioni e manipolazioni storiche.

Ma il maltrattamento delle dottrine e della storia è cosa di poco conto, in quella scrittura, a paragone dell'abuso che si fa della parola "religione"; perché, a senso dei signori intellettuali fascisti, noi ora in Italia saremmo allietati da una guerra di religione, dalle gesta di un nuovo evangelo e di un nuovo apostolato contro una vecchia superstizione, che rilutta alla morte la quale, le sta sopra e alla quale dovrà pur acconciarsi; e ne recano a prova l'odio e il rancore che ardono, ora come non mai, tra italiani e italiani. Chiamare contrasto di religione l'odio e il rancore che si accendono contro un partito che nega ai componenti degli altri partiti il carattere di italiani e li ingiuria stranieri, e in quell'atto stesso si pone esso agli occhi di quelli come straniero e oppressore, e introduce così nella vita della Patria i sentimenti e gli abiti che sono propri di altri conflitti; nobilitare col nome di religione il sospetto e l'animosità sparsi dappertutto, che hanno tolto persino ai giovani delle università l'antica e fidente fratellanza nei comuni e giovanili ideali, e li tengono gli uni contro gli altri in sembianti ostili; è cosa che suona, a dir vero, come unassai lugubre facezia. In che mai consisterebbe il nuovo evangelo, la nuova religione, la nuova fede, non si riesce a intendere dalle parole del verboso manifesto; e, d'altra parte, il fatto pratico, nella sua muta eloquenza, mostra allo spregiudicato osservatore un incoerente e bizzarro miscuglio di appelli all'autorità e di demagogismo, di proclamata riverenza alle leggi e di violazione delle leggi, di concetti ultramoderni e di vecchiumi muffiti, di atteggiamenti assolutistici e di tendenze bolsceviche, di miscredenza e di corteggiamenti alla Chiesa cattolica, di aborrimenti della cultura e di conati sterili verso una cultura priva delle sue premesse, di sdilinquimenti mistici e di cinismo. E se anche taluni plausibili provvedimenti sono stati attuati o avviati dal governo presente, non c’è in essi nulla che possa vantarsi di un'originale impronta, tale da dare indizio di nuovo sistema politico che si denomini dal fascismo.

Per questa caotica e inafferrabile "religione" noi non ci sentiamo, dunque, di abbandonare la nostra vecchia fede: la fede che da due secoli e mezzo è stata l'anima dell'Italia che risorgeva, dell'Italia moderna; quella fede che si compose di amore alla verità, di aspirazione alla giustizia, di generoso senso umano e civile, di zelo per l'educazione intellettuale e morale, di sollecitudine per la libertà, forza e garanzia di ogni avanzamento. Noi rivolgiamo gli occhi alle immagini degli uomini del Risorgimento, di coloro che per l'Italia operarono, patirono e morirono; e ci sembra di vederli offesi e turbati in volto alle parole che si pronunciano e agli atti che si compiono dai nostri avversari, e gravi e ammonitori a noi perché teniamo salda la loro bandiera. La nostra fede non è un escogitazione artificiosa ed astratta o un invasamento di cervello cagionato da mal certe o mal comprese teorie; ma è il possesso di una tradizione, diventata disposizione del sentimento, conformazione mentale o morale. Ripetono gli intellettuali fascisti, nel loro manifesto, la trita frase che il Risorgimento d'Italia fu l'opera di una minoranza; ma non avvertono che in ciò appunto fu la debolezza della nostra costituzione politica e sociale; e anzi pare quasi che si compiacciono della odierna per lo meno apparente indifferenza di gran parte dei cittadini d'Italia innanzi ai contrasti fra il fascismo e i suoi oppositori. I liberali di tal cosa non si compiacque mai, e si studiarono a tutto potere di venire chiamando sempre maggior numero di italiani alla vita pubblica; e in questo fu la precipua origine anche di qualcuno dei più disputati loro atti, come la largizione del suffragio universale.

ANTONIO GRAMSCI:

Antonio Gramsci fu il primo esponente della corrente di pensiero antifascista rappresentata dagli intellettuali marxisti legati al Partito comunista italiano costituito a Livorno.

La produzione culturale di Gramsci, fino al momento del suo arresto a opera della polizia fascista, consiste essenzialmente negli articoli pubblicati sull’ “Avanti!” e su “L’Ordine Nuovo”, da lui stesso ideato e diretto, in merito alle questioni più scottanti dell'attualità politica: la polemica coi socialisti, la natura e il ruolo dei consigli di fabbrica e l'interpretazione della Rivoluzione bolscevica.

Antonio Gramsci - Wikipedia

Durante i lunghi anni della reclusione, impossibilitato a svolgere un ruolo politico attivo, Gramsci può sviluppare e approfondire i temi fondamentali del proprio pensiero nella vastissima mole di lettere e appunti confluiti poi nelle Lettere dal carcere e nei Quaderni dal carcere.

I QUADERNI DEL CARCERE:

I Quaderni del carcere è l'opera che contiene le note, gli appunti, le riflessioni su vari argomenti che Gramsci elaborò nel periodo della sua reclusione compilando i quaderni che gli venivano concessi dalle autorità carcerarie. La compilazione dei quaderni non aveva, nel progetto dell'autore, lo scopo della pubblicazione: l'opera non aveva perciò un titolo e quello attuale lo dobbiamo all'editore, non a Gramsci. Il pensatore sardo ne iniziò la stesura nel carcere di Turi nel 1929, tre anni dopo l'arresto. L'idea del lavoro, però, era già vivissima nel 1926 quando, in una lettera alla cognata Tania, Gramsci manifesta la volontà di " far qualcosa ". Egli intendeva cioè occuparsi di argomenti di alto spessore culturale da un punto di vista "disinteressato", libero dai limiti e dalle contingenze politiche del presente. Gramsci lavora alla stesura di ben 33 quaderni (non tutti compiuti però) dal 1929 al 1935: seguendo l'evoluzione compositiva dell'opera, possiamo individuare tre fasi, di cui le prime due interessano il periodo di reclusione a Turi e la terza quello di Formia (1933-1935); il passaggio da una fase all'altra è annunciato o accompagnato dall'aggravarsi della condizione fisica del detenuto. Dopo la morte di Gramsci, i Quaderni furono numerati e custoditi dalla cognata Tania, che li spedì a Mosca, dove furono presi in consegna dai membri del Partito Comunista Italiano. I temi che ricorrono e che si intrecciano all'interno dei Quaderni sono molteplici; tra i più importanti, meritano di essere ricordati:

FOLCLORE : Gramsci intende, con questo termine, la " concezione del mondo e della vita " e tutto il sistema di credenze e superstizioni proprie degli strati sociali popolari. Nel folclore Gramsci individua una potenzialità critica e rivoluzionaria rispetto alle concezioni del mondo "ufficiali" espresse dalle " parti colte delle società storicamente determinate ".

QUESTIONE MERIDIONALE: Gramsci vuole analizzare il problema dello squilibrio e della contraddizione dovuti all'incapacità delle forze dirigenti risorgimentali di affrontare e di risolvere la questione contadina, particolarmente grave nel Sud. Il Partito Comunista doveva, agli occhi di Gramsci, assumersi l'impegno di favorire il superamento della disgregazione interna alle masse contadine che le rendeva incapaci di sottrarsi alla dura subordinazione nei confronti delle classi dominanti e di allearsi alla classe operaia settentrionale (la falce e il martello dello stemma comunista indicano esattamente questo: l'alleanza tra contadini del Sud e operai del Nord).

Gli anni della “disperazione nera” del Mezzogiorno - Basilicata24

LA QUESTIONE DEGLI INTELLETTUALI: il ruolo riservato da Gramsci agli intellettuali è quello di elaboratori e mediatori delle ideologie ed è fondamentale per la conquista e per l'esercizio dell'egemonia culturale da parte di ogni classe sociale che miri a diventare dominante. A questo tema si legano quindi direttamente quello dell'egemonia e della rivoluzione passiva. Gramsci afferma che " tutti gli uomini sono intellettuali ", poiché ogni uomo, consapevolmente o no, esplica " una qualche attività intellettuale ", ha una propria concezione del mondo e una consapevole linea di condotta morale, e contribuisce a modificare altre visioni del mondo suscitando nuovi modi di pensare. Il linguaggio stesso è " una minima manifestazione " intellettuale, visto che già in esso è cristallizzata una " determinata concezione del mondo ", una qualche " filosofia spontanea ". Non vi è pertanto attività umana (neppure la più pratica) " da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale ": " non si può separare l'homo faber dall'homo sapiens ". Ma se tutti gli uomini sono intellettuali, " non tutti gli uomini hanno nella società la funzione di intellettuali "; per l'esercizio di tale funzione, si formano storicamente delle categorie specializzate in connessioni con le classi sociali e specialmente con quelle più importanti e dominanti.

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