BORTOLO SALIGARI
Nato a Grosotto il 12 ottobre 1923
1) Quando è stato deportato?
Sono stato deportato l'8 settembre del 1943, al Rio di Pusteria.
2) Per quale motivo è stato imprigionato?
Sono stato catturato in seguito all’Armistizio dell'Italia perché i militari che erano sparsi per le montagne, si sono ritrovati senza comandi. Fummo costretti a scegliere tra due alternative: lasciarsi catturare e imprigionare o tentare di scappare, scelta che tuttavia presentava numerose difficoltà e una buona probabilità di essere catturati e uccisi dalle milizie tedesche. Io fui tra quelli che scelsero la prima opzione: venni catturato insieme ad un mio compaesano, con il quale condivisi tutte le tragedie vissute nei due anni nei campi di lavoro. Ricordo ancora la grande confusione che si era creata tra gli arruolati e la vista dei soldati tedeschi che ci intimarono di gettare le armi.
3) In quale campo di prigionia si trovava?
Sono stato mandato in diversi campi: in Germania.
4) Può raccontare qualche episodio riguardante la sua vita da prigioniero?
Dopo essere stati caricati su un treno bestiame, abbiamo viaggiato, ininterrottamente, per tre giorni verso una destinazione a noi sconosciuta, un campo a Nord della Germania, nei pressi di Danzica. Parlando della vita del campo sarò lapidario: fame e maltrattamenti. Un giorno trovai un bidone che pensavo contenesse del cibo, così spinto dai morsi della fame ne assaggiai il contenuto. Questo mi provocò un terribile mal di pancia, che quando poco dopo mi caricarono su un treno, circa un mese dopo il mio arrivo in quel campo, mi vidi costretto ad arrampicarmi, sfruttando una sorta di scaletta naturale formatasi fra i vari passeggeri del vagone, per fare i bisogni fuori dalla piccola finestrella che dava aria a noi prigionieri. Quando ci aprirono la porta del vagone, mi trovai nel campo dove rimasi per più di un anno. Qui eravamo considerati militari italiani internati e la nostra condizione era, per questo motivo, da considerarsi una delle migliori se paragonata agli altri orrori tedeschi; molti di noi se tentavano di opporsi o ribellarsi venivano mandati in campi ancora più duri. Quando un mio amico bestemmia contro Hitler venne catturato dai tedeschi e non lo rivedemmo mai più . Il ricordo più vivo, era la gran fame: dimagrii a tal punto che, per passare la selezione mi gonfiai il petto con della paglia. L'alimentazione consisteva in una zuppa gialla, molto liquida, probabilmente cucinata con cavoli e altre verdure. Il campo era composto da capannoni e c'erano delle fabbriche dedite a diverse produzioni. Lavoravamo quasi nudi, i vestiti erano consumati e lisi, le scarpe erano rotte e, il più delle volte, erano o troppo grandi o troppo piccole. Io lavoravo agli alti-forni e il mio compito era quello di colare il ferro e metterlo negli stampi, sudando talmente tanto che la casacca stava in piedi da sola. I tedeschi con tono duro e minaccioso ci ordinavano: "Lavorare! Lavorare!". Durante la notte, le baracche erano completamente buie e noi prigionieri potevamo sentire i bombardamenti, che scatenavano in noi la speranza di una vicina liberazione. In particolare ricordo l'attacco del 2 febbraio 1945, in cui l'esercito anglo-americano colpì la città di Dresda, sebbene il campo fosse a più di trenta chilometri di distanza. Poiché in uno di questi attacchi venne colpita una fabbrica di carbone tedesca, il lavoro diminuì e, così fummo mandati a raccogliere le macerie degli stabili distrutti, tra cui un albergo sulla cui scala, trovai un fagottino che conteneva delle specie di cicche. Era buio e ne ingoiai una conservando l'altra per il mio amico, senza accorgermi che sull'involucro era raffigurato un teschio: era veleno per topi. Attanagliato dalla paura, provai a vomitare, ma non ci riuscii. Tornati al campo ci corichiamo ed iniziai a pensare che la mia morte era ormai vicina, così , raccomandati al mio amico, il mio portafoglio. Egli durante la notte mi strattonava e mi chiedeva come stavo. Non era ancora giunto il mio momento, infatti la mattina seguente tornai a lavorare. Ancora adesso, non riesco a capire, perché la Provvidenza mi risparmiò dalla morte: l'ipotesi più accreditata era che il veleno fosse scaduto. Nel settembre del 1944 abbiamo ricevuto il titolo di "liberi lavoratori": di giorno andavamo nei terreni coltivati adiacenti al campo, cercavamo le patate e le sotterravano a mucchi in un cimitero, vicino alle tombe, per poi tornare a recuperarle durante la notte. Per cuocerle, non tagliamo la buccia e le immergiamo avvolte in una manica della camicia, in un recipiente d'acqua calda, senza sale o altri aromi, per migliorare il sapore perchè non c'erano e infine vi attaccavamo un gancio con il quale potevamo recuperarle raggiunto il punto di cottura.
5) Quando è stato liberato e ad opera di chi?
Sono stato liberato il 5 maggio del 1945. Siamo stati messi in marcia dai Nazisti, per sfuggire all'imminente arrivo dei Russi; la resa non fu però inevitabile. Noi reduci dei vari campi fummo dichiarati liberi e non ci venne garantito alcun aiuto dagli Alleati.
6) Come è stato il ritorno a casa?
Arrivammo fino a Podewils, salimmo su un camion che ci condusse fino a Crema, dove rimanemmo per alcuni giorni. E' in questo luogo che incisi sulla pentola il mio nome e altre scritte di cui ora ho dimenticato il significato, che mi era stata data in donazione durante il servizio di leva obbligatoria, e che conservo tuttora. Grazie al passaggio offerto da un camion, arrivammo a Lipsia. Dopo sette giorni partimmo per Solsi, dove rimanemmo per alcuni giorni immersi nella boscaglia, nascondendoci dagli attacchi dei Sovietici, ma venni ugualmente trovato. In questa occasione scambiai un tozzo di pane con un soldato russo in cambio di un paio di scarpe spaiate ed una scatola di legno che tuttora conservo. Saliti su un treno carico di carbone arrivammo a Norimberga dove incontrammo molti compagni di naia. Con un camion giungemmo a Mittenwald e poi ad Innsbruck, dove riceviamo un pacco-viveri, tra cui v'era un intero panetto di burro, che ancora ricordo di averlo mangiato tutto in una volta. Arrivammo al Brennero e poi a Bolzano. Io e tutte le persone provenienti da Sondrio venimmo poi caricati su un camion. Dopo un'ora di viaggio, nella zona del Lago di Garda, per il caldo e l'eccesso di carico, scoppiarono le gomme. La ditta Perego mandò in soccorso un pullman e finalmente giungemmo a Tirano. Qui ci fu il momento più sconvolgente, perché non avevamo voglia di tornare a casa, quindi, dormimmo in stazione. La mattina seguente, il mio amico ed io, con un filobus, ci decidemmo a rientrare a Grosotto. La prima impressione che ebbi alla vista del mio Paese fu la strettezza delle strade, in confronto a quelle sulle quali avevo viaggiato e mi sembrava di non ricordare più com'era la mia terra natia. Trovai la casa vuota, ma i miei vicini andarono subito ad avvisare i miei familiari che lavoravano in campagna, nel frattempo andai con il mio amico a casa sua, dove sua mamma ci preparò i pizzoccheri. Arrivati i miei, stentavamo tutti a riconoscerci, mio padre mi sembrava più vecchio e mio fratello, non mi aveva riconosciuto.
Considerazioni:
Al signor Bortolo non piace ritornare col pensiero a quei momenti ma, se interpellato, ritiene giusto raccontare per far conoscere l'orrore del progetto nazista. La sua prima reazione alle mie domande fu un cenno di disgusto e di disprezzo. Lui ritiene che siano cose troppo brutte e chi non le ha provate, non può veramente rendersene conto. Non si sente un eroe, nemmeno ora che tutto ciò è passato, ma si sente ancora una vittima a cui è stato tolto qualcosa, qualcosa che è rimasto lì in quei campi di lavoro.